Ecco, finalmente, un buon esempio di come si può fare sviluppo locale.
Prendano appunti gli esperti di politiche industriali che da 50 anni imperversano nella nostra terra a sperperare risorse pubbliche per regalarle all'amico di turno, che si chiami Rovelli, Moratti, Alcoa, Carbosulcis, ENI o Tirrenia poco importa.
Se lo scrivano bene nei loro taccuini: lo sviluppo locale si fa con la formazione, con l'innovazione, con l'apprendimento collettivo. Non ci vogliono grandi capitali, industrie inquinanti e finti salvatori della patria quanto un po' di lungimiranza, un po' di ambizione e una buona capacità di leggere i processi storici.
Insomma, basta avere una visione di se stessi e di cosa si vuole per il proprio futuro. Ecco la chiave per attivare processi reali di trasformazione sociale.
Così, proprio su queste basi, nella piccola repubblica baltica dell'Estonia in questi giorni è partito un ambizioso programma di intervento sul modello di istruzione pubblica che prevede l'insegnamento obbligatorio per tutti gli studenti, fin dai 7 anni, dei principali elementi di programmazione informatica. Si, avete capito bene, programmazione informatica. Tutti quegli elementi in grado di permettere ad una persona di sviluppare una app per lo smartphone o di scrivere del codice per un software. Tutti gli elementi per non limitarsi a consumare prodotti informatici ma per capire, fin dall'infanzia, ciò che si maneggia. Favorire, insomma, la trasformazione dei ragazzi da meri consumatori in potenziali produttori di innovazione e tecnologia.
Si chiama tiger leap la fondazione che, in collaborazione con il ministero dell'istruzione estone, provvederà a gestire la sperimentazione in 20 istituti scolastici, per testare i modelli di insegnamento e formare i docenti. Ben presto si proseguirà con tutti i 530 istituti scolastici della repubblica baltica per dare vita al piano ProgeTiiger, il più ambizioso piano di educazione informatica al mondo. Una novità, questa, posta già sotto la lente di ingrandimento da tanti paesi tecnologicamente avanzati che vedono nell'Estonia sempre più un laboratorio mondiale di politiche innovative.
Non si tratta di certo di interventi in grado di favorire il clientelismo politico. Si tratta invece di mettere in campo una visione differente del proprio modo di stare al mondo, delle proprie politiche industriali ed economiche a partire proprio dall'istruzione e dalla formazione.
Oggi si può sperare di competere nell'economia globale lavorando lastre di alluminio, gassificando carbone o attirando, con ingenti incentivi, qualche multinazionale della chimica di base (tutti interventi capital intensive). Oppure si può leggere, ad esempio, nei processi di terziarizzazione delle nostre società una grande opportunità di trasformazione dei comparti produttivi attraverso lo sviluppo della piccola e media impresa, dei servizi informatici e dello sviluppo di prodotti innovativi (labour intensive). Nel primo caso si ha bisogno di manodopera poco qualificata, di ingenti capitali e di grandi gruppi multinazionali, nel secondo di una forza lavoro qualificata e specializzata e di investimenti mirati a supportare un tessuto produttivo diffuso. Nel primo modello è centrale la politica ed i suoi apparati di potere e controllo, nel secondo è centrale la formazione, lo spirito auto-organizzativo di una società e i servizi avanzati alle imprese.
Due alternative possibili, ugualmente dignitose da un punto di vista pragmatico e ugualmente percorribili. Sono differenti i costi sociali, la sostenibilità degli interventi, l'impatto sul territorio, il ruolo delle risorse umane, la visione di futuro.
L'importante è che chi effettua le scelte di politica economica ed industriale si sappia assumere le responsabilità dei potenziali fallimenti che ne conseguono dal percorrere l'una o l'altra strada. Se per cinquant'anni si persegue in maniera ossessiva un modello di intervento pubblico capital intensive, in settori come la chimica di base, si arriva prima o poi a fare i conti con la realtà, con la dura realtà. Questo è il nodo attuale del dibattito, questo è il punto dove la politica autonomista ha condotto la nostra terra. C'è una piccola differenza tra "consentire ai propri cittadini di diventare dei produttori del proprio futuro" e "regalare soldi pubblici alle multinazionali". La stessa differenza che passa tra "le politiche industriali" e "le follie industriali". Oggi, in Sardegna, è necessario un grande sforzo di politica industriale che parta realmente dalla definizione di una visione differente di futuro per le nostre comunità e delle azioni e degli interventi da effettuare. Senza questo sforzo continueremo ad ascoltare in tv il rumore assordante dei caschetti degli operai in cassintegrazione e rimarremo in attesa di un qualche intervento tampone capace di sperperare ulteriori risorse e di bruciare ancora un pò del futuro dei nostri figli.
Frantziscu Sanna
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