Non è la prima volta che ad Oristano si prova a far passare attraverso iniziative pubbliche, pagate dai cittadini, una visione della storia quantomeno faziosa. Nel 2004 si celebrò un convegno per il trentennale della nascita della Provincia. In quel convegno si cercò di far passare una strana idea della storia della nostra terra.
Per questa ragione pubblico un mio commento di allora, pubblicato integralmente da "La Nuova Sardegna", che trovo quanto meno attuale.
Rileggerlo oggi mi spinge a riflettere su quanto accadrà sabato 2 aprile nella nostra città, non solo per la discutibile iniziativa in programma ma per le "chiavi di lettura" che certi avvenimenti ci forniscono rispetto al rapporto complesso tra "storia, classe dirigiente e comunità locale".
L’insostenibile pesantezza del revisionismo storico.
Se porsi delle domande è segno di vitalità, non porsele è senza dubbio segno preoccupante di degrado intellettuale, di incapacità di rapportarsi agli avvenimenti, alla quotidianità ed, in sostanza, al proprio futuro.
Ad Oristano, in questi giorni, si è celebrato con un congresso internazionale il trentesimo anniversario della istituzione della provincia (risalente al 1974). Ora, se l’idea di ripercorrere la storia di questo territorio attraverso il contributo scientifico di studiosi di differente estrazione disciplinare, risulta essere di indubbio valore, ciò che ci lascia perplessi se non addirittura scandalizzati e il quadro di riferimento intellettuale (o politico) all’interno del quale si colloca tale manifestazione.
Il manifesto con il quale si è deciso di pubblicizzare l’iniziativa riporta una rielaborazione grafica della torre eretta da Mariano II, simbolo indiscusso della città di Oristano, sovrapposta alla torre littoria, eretta durante il ventennio fascista nella allora Mussolina di Sardegna.
A parte la discutibile qualità estetica dell’elaborazione, una domanda dovrebbe nascere spontanea non solo in tutta la cittadinanza ma in tutte quelle persone che possiedono un minimo di sensibilità storica: che rapporto vi è tra il simbolo della grandezza del giudicato di Arborea, emblema più significativo della antica cinta muraria della capitale giudicale, nonché simbolo dell’importanza della nazione sarda, della sua indipendenza e del suo ruolo all’interno degli equilibri politico-economici tra il XIII e il XIV secolo, e la torre littoria segno e simbolo di uno dei periodi più bui dei 150 anni di dominazione italiana in Sardegna?
Per noi indipendentisti non vi è alcun rapporto e chiunque intenda far passare l’idea che esista continuità storica tra i due monumenti e tra i rispettivi periodi storici non fa altro che rafforzare una forma di revisionismo intollerabile. La storia è fatta di rotture, di cicli e di ritorni senza soluzione di continuità. Diceva Fernand Braudel: “il tempo non è una linea retta […] è piuttosto il risultato di una sovrapposizione di movimenti”: il periodo giudicale segna una delle massime espressioni della civiltà sarda e della sua capacità di stare al mondo da comunità indipendente, in grado -tra l’altro- di abolire la schiavitù nel 1353 e capace di formulare un mirabile codice legislativo quale fu la “carta de logu”. Il ventennio italo-fascista cancellò le libertà civili di individui e popoli, portò a compimento guerre imperialiste e segnò, in definitiva, una delle pagine più tristi nella storia dell’umanità tutta.
Il popolo sardo ha bisogno della sua storia, di riscoprirla e di ripensarla, non ha bisogno del revisionismo di una classe politica nostalgica del ventennio, italiana nel profondo e anti-sarda per vocazione. L’albero deradicato degli Arborea ricomincerà a sventolare sulla torre di Mariano II, il fascio littorio -per i sardi e per il mondo intero- fortunatamente NO.
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